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Quando il presidente ucraino salì sul podio quella mattina, il silenzio non era solo nelle piazze. Partiva dai campi svuotati, dai focolari spenti, fino ad arrivare agli occhi disincantati degli ufficiali che avevano già firmato l’ordine di smobilitazione.
Quando il presidente ucraino salì sul podio quella mattina, il silenzio non era solo nelle piazze. Partiva dai campi svuotati, dai focolari spenti, fino ad arrivare agli occhi disincantati degli ufficiali che avevano già firmato l’ordine di smobilitazione.
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«Non ci arrendiamo. Ci ritiriamo. La nostra guerra non sarà più con i fucili, ma con i piedi. Le nostre gambe, le nostre valigie, i nostri bambini… saranno la risposta a chi ha guardato senza agire.»
La diretta durò appena cinque minuti. Bastarono.
Nel giro di tre giorni, otto milioni di persone lasciarono l’Ucraina. Non alla spicciolata. Non in fuga. Era un corteo. Ordinato, spaventoso nella sua compostezza.
Le frontiere europee, già fragili, crollarono come sabbia sotto una marea.
I telegiornali parlavano di "esodo biblico", ma nessuno riusciva a dargli un nome vero.
Le città dell'Est si riempirono.
I treni verso Berlino, Vienna, Roma e Parigi si moltiplicarono, poi si fermarono.
A piedi, in bicicletta, su auto rotte e furgoni condivisi, il popolo ucraino non scappava: avanzava.
A Bruxelles, i capi di Stato europei si riunivano per la terza volta in una settimana.
Le parole erano sempre le stesse: "solidarietà", "contenimento", "emergenza".
Ma nessuno riusciva a dire l’unica verità: la guerra si era spostata.
E ora era dentro i confini.